City Bites – Saigon
Saigon Noir – motorini, spie e zuppe fumanti

Certe città non hanno bisogno di presentazioni. Ti accolgono con il rumore: quello dei motorini, dei clacson, del ghiaccio tritato nei bicchieri. Saigon — o Ho Chi Minh City, se proprio vuoi fare il preciso — è una di quelle. Appena arrivi, ti prende alla gola con l’umidità e ti stordisce con gli odori: benzina, citronella, carne alla griglia e sogni che si disfano al sole. È una città che si muove in continuazione, senza fermarsi un attimo.
Qui tutto si mescola: colonialismo e capitalismo, brodo e bourbon, ricordi di guerra e Wi-Fi gratuito. Le nonne attraversano incroci infernali come se niente fosse, i rider inseguono ordini come se fossero dollari, e intanto, tra un bánh mì e un caffè condensato, la città si reinventa. Sempre. Perché a Saigon non si cambia mai del tutto: si stratifica.
Il cibo, si sa, è il modo più diretto per capire una città. E quello di Saigon è una confessione a cielo aperto: dolce, agrodolce, piccante, e soprattutto impossibile da catalogare. Come i suoi quartieri: uno con le baguette, uno con i wok, uno con il karaoke a tutto volume e il riso speziato alle 3 del mattino. Qui la cucina è resistenza condita con coriandolo, memoria servita col caffè ghiacciato, diplomazia in salsa di pesce.
Saigon ti entra sotto pelle mentre cerchi di decifrarla, ma alla fine intuisci che non devi necessariamente capirla. Basta sedersi su uno sgabello di plastica, respirare a fondo (se riesci), e lasciare che la città ti racconti qualcosa. Di sé. Di te. Di quello che resta quando tutto sembra passato, ma in realtà non se n’è mai andato.
Il suo nome ufficiale è Ho Chi Minh City, ma nessuno la chiama così davvero. O almeno, nessuno che ci viva davvero. Saigon è più di un nome: è un’abitudine che resiste, una parola che rotola sulla lingua come il ghiaccio in un bicchiere di cà phê sữa đá. Un nome che si sussurra tra i denti, come si fa con una ex che non si è mai davvero dimenticato. Qui tutto cambia, certo, ma con un certo stile. Il passato non se n’è mai andato del tutto, si è solo messo a cucinare qualcosa di nuovo con gli ingredienti rimasti in frigo.
Ci sono motorini ovunque. Non lo dico per dire. Sono ovunque. A centinaia, a migliaia, come uno sciame metallico in preda a un attacco di caffeina. E sopra, c’è di tutto: ragazzi in uniforme scolastica, donne in tailleur e tacco dodici, rider che consegnano pasti e sogni a domicilio, nonne con la fermezza di generali in pensione che attraversano il traffico come se avessero il potere di Mosè. E forse ce l’hanno. Perché Saigon non la attraversi, la sopporti. Ti ci infili dentro come un vestito sudato e impari a muoverti con lei, non contro.
Il bello è che ti prende con il cibo, come ogni città che sa come sedurti senza doverti spiegare troppo. Qui il cibo è memoria e sopravvivenza, identità e compromesso, una trattativa continua tra quello che eri e quello che puoi permetterti di essere oggi. Un phở saigonese non è solo una zuppa: è la prova che anche dentro un brodo ci si può nascondere una guerra, una fuga, una risata, un’intera famiglia. Ci trovi dentro il Nord, il Sud, la Francia, la Cina, gli Stati Uniti e la madre che ti guarda e ti dice “mangia”. E tu mangi, perché qui si mangia sempre. Ovunque. In piedi, seduti, accovacciati, al buio, col sole in faccia, sotto la pioggia, in silenzio o gridando.
A Saigon ogni boccone è una stratificazione, un palinsesto commestibile. Può essere una baguette coloniale farcita con paté e coriandolo, oppure un bún thịt nướng che sembra un errore ben riuscito: noodles freddi, carne calda, arachidi croccanti, erbe fresche che non sai nemmeno nominare e un senso di equilibrio che ti fa dimenticare di essere in un vicolo che puzza di pesce fermentato. Ma funziona. Tutto qui funziona, anche quando sembra non avere senso.
E poi c’è il caffè. Il caffè in questa città è una religione laica. Non è solo carburante, è un modo di stare al mondo. Sedersi su uno sgabello basso, con il bicchiere di vetro che suda tra le dita, e guardare la città che passa — questo è Saigon. Un filtro metallico, due dita di latte condensato, ghiaccio a volontà, e una robusta così forte che ti cancella le certezze. Altro che espresso italiano. Qui il caffè ti parla, ti racconta di piantagioni, di missionari francesi, di giovani che reinventano tutto in locali che sembrano uscite da un set di Wes Anderson, ma con il wi-fi più veloce.
In questa città, il caffè è una dichiarazione d’intenti. Non importa se sei un hipster con il filtro giapponese o una nonna con il phin metallico ereditato dalla figlia: prima o poi ti siedi, sorseggi, e ascolti la città parlare. Il cà phê sữa đá — caffè nero, latte condensato, ghiaccio e pazienza — è più che una bevanda: è un’unità di misura del tempo, un rito laico, una confessione pubblica senza prete. E mentre bevi, osservi. La città è tutta lì, in quel bicchiere sudato: il traffico che non si ferma, le ombre lunghe dei palazzi coloniali, il neon che lampeggia sopra un cartello sbeccato.
La sera, quando altrove si cerca il bar con le luci basse e il gin tonic “signature”, qui ci si ritrova in una caffetteria che sembra un set di Wong Kar-wai, tra playlist ambient e studenti con il portatile. E no, non è posa: è solo che Saigon ha imparato a convivere con il caos senza farsi notare troppo. Ogni quartiere ha il suo locale nascosto, la sua clientela affezionata. È una città che non ti chiede mai chi sei, ma ti osserva mentre lo scopri da solo
I francesi la volevano civilizzare. La chiamavano “la Parigi d’Oriente”, con i viali larghi, le fontane e i palazzi neoclassici, come se bastasse piantare qualche ficus e costruire un teatro dell’opera per cambiare l’anima di un posto. Ma Saigon non è mai stata addomesticabile. Ha fatto finta, per un po’. Si è lasciata vestire a festa, ha imparato a dire bonjour e a mettere il foie gras nel menù. Ma sotto la tovaglia inamidata c’era sempre il riso cotto a vapore e l’odore di brodo fermentato.
C’erano bistrot con nomi francesi, panetterie che sfornavano baguette alleggerite con farina di riso, caffè all’uovo e dessert al cocco serviti come fossero mousse. I cuochi vietnamiti imparavano l’arte del sugo e della besciamella mentre preparavano pot-au-feu con salsa di pesce per funzionari col monocolo e la nostalgia di Lione. Poi la guerra finì (quella coloniale, intendo), ma loro restarono. I sapori si mischiarono, come sempre. E nacque il bánh mì: la baguette diventata panino, l’invasione trasformata in spuntino.
Poi arrivarono gli americani. E con loro una nuova ondata di proteine, dollari e confusione morale. A Saigon gli yankee non vennero solo a combattere, vennero a spendere. La città diventò una gigantesca retrovia, un set di guerra dove le battaglie si combattevano lontano e si dimenticavano tra un whisky e una bistecca troppo cotta. Bar, hotel, night club, parrucchieri per GI e ristoranti che servivano hamburger e Coca-Cola: tutto a disposizione, purché avessi i soldi o la divisa giusta.
Il conflitto? Era altrove, schivando comunque attentati e rivoluzionari mimetizzati da contabili o da segretarie di ambasciata. Qui si facevano affari, con il mercato nero, con il contrabbando, con i sogni venduti a ore nelle stanze dei bordelli. E anche lì, il cibo faceva da spartiacque: filetto e gelato per alcuni, riso speziato e porridge per gli altri. Ma nessuno si lamentava troppo. A Saigon, si sopravviveva. Con dignità, se possibile. Con astuzia, se necessario. Con un sorriso appena storto e la certezza che ogni invasore prima o poi se ne va, ma la zuppa resta.
Le donne? Erano dappertutto. A cucinare, a vendere, a contrattare, a sopravvivere. Alcune finirono nella trappola dell’intrattenimento per soldati. Altre riuscirono a cavarsela meglio. Ma tutte, in un modo o nell’altro, hanno lasciato un’impronta e la città ne porta ancora il segno. Perché anche quando la guerra è finita — ufficialmente il 30 aprile 1975, con l’ultima elica che si alza dall’ambasciata — Saigon non ha chiuso il sipario. Ha solo cambiato scena.
Con il nuovo regime, il copione prevedeva comunismo reale e razionamenti, tessere annonarie, ristoranti nazionalizzati e cucine che tornavano al minimo sindacale. Ma sotto la superficie, come sempre, si cucinava. Nelle case, nei vicoli, nei cortili. Niente foie gras, niente bourbon, ma il brodo tornava a bollire. La memoria, qui, passa sempre per lo stomaco.
Poi un giorno, senza preavviso, la città ricominciò a respirare. Era la fine degli anni Ottanta, e qualcuno ad Hanoi aveva deciso che forse l’economia pianificata funzionava meglio sulla carta che nei mercati. Arrivò il Đổi Mới, il “rinnovamento”, e con lui l’apertura, i capitali, i container, i nuovi sogni. Saigon, che aveva sempre avuto una certa propensione al commercio e al compromesso, non se lo fece ripetere due volte. Si tolse il cappello ideologico, si rimboccò le maniche e tornò a fare quello che le riesce meglio: cucinare il futuro con gli avanzi del passato.
I mercati notturni si riempirono di odori e neon. Le bancarelle, mai del tutto sparite, diventarono il centro di un nuovo fermento urbano. Il bánh mì tornò a scrocchiare, il phở divenne glamour, e lo street food cominciò a comparire nelle guide turistiche sotto la voce “esperienza autentica”. I giovani, cresciuti tra telenovelas coreane e film piratati, iniziarono a sognare Tokyo e Brooklyn, ma senza mai lasciare davvero i vicoli del distretto 3.
Nacquero ristoranti con i piedi per terra e lo sguardo su Instagram. Alcuni servivano bánh xèo destrutturato, altri facevano fusion tra cucina monastica e minimalismo nordico, altri ancora prendevano il nước mắm e lo trasformavano in riduzione da alta cucina. Ma la verità è che anche il piatto più fighetto doveva avere qualcosa di vero sotto. Perché qui la gente sa distinguere. Sa riconoscere quando un brodo è stato fatto con amore, e quando è solo marketing in salsa di pesce.
Intanto, le birre. Una volta c’erano solo le lager industriali, da scolarsi su uno sgabello con accanto una pentola di lumache. Oggi, invece, il luppolo è diventato poesia urbana. Cuociono IPA al mango, saison al pepe di Phu Quoc, stout al caffè robusta. I microbirrifici spuntano tra i grattacieli e le gallerie d’arte, i designer si sfidano a chi ha l’etichetta più hipster, e i barman ti raccontano la storia della birra come se fosse un poema epico. Ma sotto sotto, è sempre lo stesso rito: bere insieme, dimenticare in compagnia, e raccontarsi che andrà tutto bene — magari domani.
Poi è arrivato il Covid. E Saigon si è fermata. Per davvero, stavolta. Silenzio, saracinesche abbassate, motorini immobili. Ma anche lì, nel buio di quei mesi, qualcosa bolliva. Letteralmente. Le cucine domestiche sono tornate a essere fabbriche di sopravvivenza. Si è venduto cibo via social, consegnato a piedi, cucinato sul balcone. La città non si è arresa: ha solo cambiato formato. Da ristorante a ghost kitchen, da mercato a chat di gruppo. In fondo, l’adattabilità è sempre stato il piatto forte di Saigon.
E quando la nebbia pandemica si è alzata, la città è ripartita come se nulla fosse. O meglio, come se avesse imparato a far finta che nulla fosse. Ma qualcosa era cambiato. Più attenzione agli ingredienti, più voglia di raccontarsi. La nuova Saigon non è solo giovane e vivace. È anche lucida, ironica, affamata di senso oltre che di sapore.
E poi c’è l’arte. Quella vera. Quella che spunta dove non te l’aspetti: un graffito sotto un cavalcavia, un concerto nel cortile di una ex fabbrica, una mostra in una galleria che si chiama come un cocktail. Gli artisti qui non fanno teoria, fanno cose. Cucinano installazioni come fossero zuppe, usano il cibo come tela, mescolano rituali buddhisti e poster anni Ottanta, si scambiano birre artigianali e idee al gusto di lemongrass. Saigon non ha mai avuto tempo per le definizioni. Qui l’arte non è sacra: è condivisa, mangiata, sporcata di salsa chili.
Eppure, non c’è romanticismo facile. Saigon non è una città da cartolina, non si lascia impacchettare facilmente. È una città che si mostra a pezzi, tra il rumore dei motorini e la poesia di un venditore ambulante che canta, tra una ciotola fumante e un’insegna arrugginita. Vive di contraddizioni feroci e armonie improvvise, e solo chi ci si perde davvero può trovare il filo.
Il cibo è ancora la chiave. Sempre. Ogni piatto è un palinsesto: dice cosa eri, cosa sei diventato e cosa stai cercando di dimenticare. Si mangia come si vive: con urgenza, con attenzione intermittente, con fame vera e voglia di raccontare. Non è nostalgia, è memoria che si reinventa ogni giorno. Saigon non vuole piacere. Vuole esserci. Vuole sorprenderti mentre pensavi di aver capito tutto, magari mentre stai addentando un bánh mì che sa di passato coloniale e di futuro vegan.
E poi ci sono gli scrittori. Quelli che arrivano da fuori con un taccuino, restano il tempo sufficiente per perdersi in un vicolo o in un letto sbagliato, e poi se ne vanno lasciandosi dietro una scia di parole stropicciate, umide di pioggia tropicale e rimpianti filtrati in bianco e nero. Il più famoso resta Graham Greene, che a Saigon trovò l’ambientazione perfetta per The Quiet American: una città stanca di guerre che non ha scelto, abitata da uomini troppo idealisti che la vogliono cambiare e altri troppo vecchi che non ci credono più. Greene ci vide lungo. Capì che Saigon è il tipo di posto dove i buoni si annoiano, i cattivi si mimetizzano e gli innamorati sbagliano sempre porta.
Ma non fu l’unico. Robert Stone, in Dog Soldiers, prese il testimone e aggiunse paranoia e oppio al cocktail. Saigon, in quel romanzo, è una zona grigia e febbrile, dove la realtà sembra filtrata attraverso uno specchio deformante, e dove la guerra — più che combatterla — si subisce, si consuma, si respira. Tim O’Brien, invece, ne parla di riflesso nei suoi racconti su chi in Vietnam ci è stato per davvero: soldati che tornano con addosso l’odore del Mekong, e nella testa ricordi che sembrano sogni ma non lo sono. Anche Larry Heinemann ci ha lasciato una versione dura, sporca, viscerale del Vietnam urbano e rurale in Close Quarters.
Ma c’è anche una voce vietnamita, anzi più d’una, che ha iniziato a riappropriarsi di quella narrazione. Viet Thanh Nguyen, con Il simpatizzante, ha ribaltato l’intero canone: un romanzo di spionaggio, identità frantumate e sarcasmo corrosivo, dove Saigon è il palcoscenico della caduta e della messa in scena permanente. L’autore — nato a Saigon e cresciuto negli Stati Uniti — racconta un doppio tradimento: quello politico e quello della rappresentazione. E lo fa con un’ironia feroce che disinnesca la retorica e restituisce complessità.
Accanto a lui, altri autori vietnamiti della diaspora — come Ocean Vuong, più poetico e intimo, o Monique Truong, con la sua prosa sensuale e diasporica — offrono visioni oblique ma complementari. Saigon, nei loro scritti, è fantasma e radice, trauma e casa, una città che non si lascia chiudere in una definizione né in un ricordo preciso.
E poi c’è tutta una letteratura minore, dimenticata, fatta di spie fallite, giornalisti ubriaconi, disertori con vocazione poetica, dove la città è sempre un fondale mobile: a volte decadente, a volte opaca, mai neutra. Saigon è lì, con i suoi viali coloniali e i suoi mercati affollati, non come sfondo, ma come personaggio vero — silenzioso, testardo, dotato di una sua ironia segreta.
Il cinema ha fatto il resto. Anche quando non era lei, era comunque lei. Saigon è apparsa di sbieco, evocata più che mostrata, ricreata altrove per esigenze di produzione, ma sempre presente nell’immaginario. Kubrick, in Full Metal Jacket, usò Londra per costruire il Vietnam, ma la sensazione che si cercava di evocare era proprio quella: caldo, confusione, canti da bar e violenza sotto la superficie. Oliver Stone, in Platoon e Born on the Fourth of July, ci andò più vicino, trasformando il paesaggio in una coscienza febbrile. In film più recenti come The Lover o Indochine, il passato coloniale della città viene messo in scena con lentezza pittorica, una nostalgia estetica che spesso non coincide con quella storica, ma che funziona bene sul grande schermo.
E come dimenticare Il Cacciatore, con quella roulette russa ambientata in una Saigon che sa più di incubo che di città vera. Lì Cimino non cercava realismo, cercava un simbolo. E Saigon, anche se ricostruita altrove, glielo ha dato. Le pallottole girano, i personaggi crollano, e intanto la città — rumorosa, vischiosa, irreale — resta sullo sfondo come un miraggio tossico da cui non si esce mai davvero. Anche questo è noir: una disperazione così densa che quasi non fa più male, solo rumore.
Perfino chi non c’è mai stato sembra conoscere Saigon. Perché è una città che si presta bene al fraintendimento, al sogno, all’alterazione. È un contenitore ideale per qualsiasi storia che abbia bisogno di un luogo ambiguo, seducente, pericoloso quanto basta ma mai davvero ostile. Saigon non ti respinge: ti lascia entrare. Ti osserva, ti accoglie, ti sopporta. E poi ti cambia.
Gli scrittori noir, quelli bravi, l’hanno capito. Qui non servono trame complicate, basta restare fermi, con il bicchiere in mano, e aspettare. Qualcosa succede. Sempre. Può essere un colpo di stato o solo una zuppa troppo salata, ma qualcosa arriva. E quando arriva, se hai un po’ di sensibilità, prendi appunti.
Alla fine, Saigon è più sceneggiatura che scenografia, più dialogo sussurrato che carrello cinematografico. Non cerca di piacerti, e proprio per questo ti resta dentro. Una città dove puoi trovarti a bere un espresso artigianale con note di durian e caramello, mentre un vecchio expat francese ti racconta una storia che non puoi verificare ma che, per qualche motivo, suona vera. E tu lo ascolti. Perché a Saigon anche le bugie sanno di verità — basta saperle cuocere lentamente, come si fa con il brodo buono.
È un contenitore ideale per qualsiasi storia che abbia bisogno di un luogo ambiguo, seducente, pericoloso quanto basta ma mai davvero ostile. Saigon non ti respinge: ti lascia entrare. Ti osserva, ti accoglie, ti sopporta. E poi ti cambia.
Alla fine, forse, non resta che accettarla così com’è. Una città che non chiede di essere capita, ma che merita di essere vissuta. Una città dove il caos è solo il sottofondo di un ordine più profondo, dove la dolcezza si nasconde nei piatti salati e dove, per davvero, tutto quello che serve è sedersi, ascoltare — e mangiare. Perché Saigon non si conquista. Si assaggia. Un boccone alla volta.
Saigon immaginata
Tra romanzi, film e piatti fumanti
Dimenticate la mappa: per molti Saigon è prima di tutto un’idea — un miraggio tropicale, un set mentale, un’inquadratura sfuocata tra nebbia e coriandolo. Ecco un elenco (non esaustivo, ma evocativo) di chi ha provato a raccontarla, con diversi gradi di verità, nostalgia, fiction e piatti tipici:
Romanzi
- Graham Greene, The Quiet American
Il classico. Intrigo politico, malinconia coloniale e un’aria da fine corsa. Tutto parte dall’Hôtel Continental. - Robert Stone, Dog Soldiers
Paranoia, droga e guerre parallele. Una Saigon febbrile e allucinata, dove la realtà si sfalda come la morale. - Larry Heinemann, Close Quarters
Vietnam sporco e viscerale. Il fronte e la retrovia si confondono, e Saigon pulsa sotto la superficie. - Tim O’Brien, The Things They Carried
Racconti frammentati, più memoria che geografia. La città è evocata come soglia tra trauma e mito. - Viet Thanh Nguyen, Il simpatizzante
Ironia corrosiva, doppia identità e decostruzione dello sguardo occidentale. Saigon è il teatro (e il trucco) di una farsa tragica. - Ocean Vuong, Brevemente risplendiamo sulla terra
Prosa poetica e diaspora. Saigon è più assenza che presenza, ma resta lo sfondo emotivo. - Monique Truong, Il libro del sale
Colonialismo, cucina e intimità queer. Saigon è solo evocata, ma lascia il profumo del passato nelle stanze.
Cinema
- Il Cacciatore (The Deer Hunter, 1978, M. Cimino)
La roulette russa a Saigon: claustrofobia, trauma, fatalismo. Forse mai girata lì, ma impossibile da pensare altrove. - Saigon (Off Limits, 1988, C. Thomas Howell)
Willem Dafoe in un thriller notturno tra bordelli, basi militari e segreti scomodi. Saigon come città terminale, dove niente è ciò che sembra e tutti hanno qualcosa da nascondere. - Indochine (1992, R. Wargnier)
Epicità coloniale, tramonti su portici e dolcezza estetica. Una Saigon da cartolina, ma ben costruita. - L’amante (The Lover, 1992, J.-J. Annaud)
Saigon sensuale e proibita, vista con l’occhio torbido del desiderio coloniale. Iconica e controversa.
Piatti iconici
- Full Metal Jacket (1987, S. Kubrick)
Saigon evocata, mai mostrata. Ma il suo fantasma aleggia tra addestramenti e alienazione. - The Quiet American (2002, P. Noyce)
Adattamento moderno, più patinato ma fedele nello spirito. Michael Caine in gran forma. - Bánh mì (il panino Saigon): baguette croccante farcita con paté, cold cuts, verdure in salamoia, coriandolo e chili. Ogni variante è un universo, da quello classico a quello al maiale grigliato o agli involtini vegetariani
- Cơm tấm Sài Gòn (riso speziato): servito con costa di maiale grigliata, pelle croccante, omelette vietnamita, verdure sottaceto e salsa di pesce dolce‑saporita. Un comfort food urbano, simbolo della cucina del Sud
- Phở (versione saigonese): la zuppa nazionale, ma nella Saigon più autentica diventa un brodo leggero, noodles sottili, fette di manzo o pollo e un condimento floreale e piccante, spesso accompagnata da coriandolo fresco e lime.
- Bò lá lốt (manzo alla foglia di betel): involtini di manzo aromatizzato e avvolto in foglia di betel, grigliati alla brace, serviti con arachidi e salsa piccante – un incrocio tra street food e rituale rustico
- Bánh xèo (frittella salata): padella sottile e croccante ripiena di gamberi, carne di maiale e germogli, arrotolata e consumata con erbe fresche e nuoc cham. Un equilibrismo gustativo tra fragranza e freschezza .
- Gỏi cuốn (involtini freschi): involtini di carta di riso con gamberi, maiale, noodles e verdure che si intingono in salsa di arachidi o pesce – il Vietnam crudo, leggero e contemplativo
- Bánh tráng trộn (insalata di carta di riso): snack urbano fatto con strisce di carta di riso, erbe, uova di quaglia, mango verde, gamberetti secchi e sale speziato: un mix di consistenze e contrasti esplosivi .