City Bites – Bangkok

Bangkok Noir – Luci al neon, spiriti, e un tuk tuk che non aspetta.

Bangkok

Bangkok non si spiega. Si subisce, si morde, si sogna. Oppure si racconta, con lo stesso tono di chi, dopo tre whisky, prova a spiegarti perché ha smesso di fumare ma tiene sempre una sigaretta accesa fra le dita. È una città che odora di basilico fritto e di cavi bruciati, che ti guarda da sotto in su come un gatto randagio che ha già visto tutto. E che, a differenza tua, non si stupisce più di niente.

Il suo nome completo è una litania da fine del mondo: Krung Thep Maha Nakhon Amon Rattanakosin Mahinthara Ayutthaya… Un poema barocco che promette palazzi celesti e re immortali. Ma appena esci dall’aeroporto e ti ritrovi a sudare nell’aria spessa come un brodo, capisci che qui la divinità ha preso la residenza in un 7-Eleven aperto 24 ore e in un wok che sfrigola accanto a un grattacielo di cinquanta piani.

Non c’è niente di lineare in questa città: qui la storia non si conserva, fermenta. Come il nam pla, la salsa di pesce che accompagna quasi tutti i piatti thai Ogni periodo storico ha lasciato una scia, un sapore, un’abitudine che si è fusa con qualcos’altro. C’è la Bangkok delle architetture di ispirazione occidentale, quella che ha flirtato con l’Europa senza farsi conquistare. C’è la Bangkok degli italiani dimenticati – Mario Tamagno, Annibale Rigotti ed Ercole Manfredi, chi li ricorda più? – architetti e scultori che hanno provato a metterla in riga e le hanno costruito stazioni ferroviarie e palazzi neo-rinascimentali. Per non parlare poi di Corrado Feroci, scultore fiorentino trasferitosi in Thailandia nel 1923, che adottò in seguito il nome Silpa Bhirasri. Considerato il padre dell’arte moderna thailandese, Feroci contribuì a definire un’estetica nazionale moderna e fu tra i fondatori dell’Università di Belle Arti (oggi Silpakorn University), formando generazioni di artisti e influenzando l’immaginario visivo della nuova Bangkok.

E c’è, direttamente dalla guerra fredda, la Bangkok delle spie, dei ristoranti francesi che non erano francesi, dei piatti sovietici cucinati da thai con passaporto falso e dei whiskey bar dove nessuno chiedeva mai “on the rocks”, visto che non si fidavano della purezza dell’acqua. Dei giornalisti di passaggio che, grazie alla manica larga degli editori, si potevano permettere di alloggiare al Mandarin e di quelli che si sarebbero fermati, trasformandosi negli old hands che si potevano incontrare avvitati ad uno sgabello di qualche bar, sempre pronti a raccontarti la loro incontrovertibile visione di quella parte di mondo.

Durante la guerra del Vietnam, la città divenne il parco giochi del mondo libero. O almeno di quella parte del mondo libero in licenza. Le truppe americane arrivavano per il rest & recreation, ma più spesso cercavano rifugio, sesso, bistecche e un po’ di silenzio dopo il napalm scaricato a fiumi sulle risaie vietnamite. Nacquero hotel con nomi americani, per far sentire i ragazzi dello Zio Sam a casa – The Florida, The Atlanta Hotel, The Miami Hotel, alcuni dei quali sono ancora in piedi e operanti – e interi quartieri si trasformarono in scenografie da film: Patpong, Nana, Soi Cowboy, tutti ancora lì, perfettamente funzionanti e diventati dei set perfetti per reel e dirette social.

Il cibo, naturalmente, ha seguito il ritmo della città: irregolare, contaminato, imprevedibile. Bangkok non ha mai cucinato per piacere al mondo, ma il mondo ha finito per mangiarle dalle mani, senza nemmeno sapere perché. Qui tutto diventa commestibile: l’identità, la memoria, il marketing. Dalla corte reale, dove si scolpivano le verdure come miniature di porcellana, ai vicoli roventi di Yaowarat, dove si servono noodles a due velocità — caldi per i vivi, bollenti per i morti — ogni piatto ha un passato che non si può digerire senza sudare.

Il pad thai, fiore all’occhiello dell’orgoglio nazionale, è in realtà una creatura di propaganda: ideato per combattere l’invasione culturale dei noodle cinesi e addestrare le masse al patriottismo da strada. Un piatto facile, veloce, replicabile. In altre parole: controllabile. E come ogni buona bugia ben confezionata, è diventato vero per consumo collettivo.

La cucina thailandese non è mai stata pura, e va bene così. È un linguaggio meticcio, dove il cocco si mescola al curry indiano, la soia arriva dalla Cina, il peperoncino dal Messico, e le salse hanno nomi che suonano come minacce. Le influenze sono ovunque: giapponesi, malesi, khmer, persiane, portoghesi, americane. In tempi di guerra, si mangiava quello che portavano i soldati — hamburger, patatine, cereali in scatola e caffè solubile — e poi lo si ritraduceva in codice locale, con un tocco di lemongrass e l’immancabile riso.

Oggi, mentre il mondo si affanna dietro al concetto di fusion, Bangkok sbadiglia. Qui la contaminazione è una prassi quotidiana, non un trend da chef tatuato. La città serve ancora pasti per strada con tre piatti, un cucchiaio e nessuna domanda. Ma allo stesso tempo alimenta una nuova generazione di cuochi che mescolano fermentazioni contadine e fine dining, tofu artigianale e caviale nordico, riso glutinoso e storytelling ambientale. Il cibo è diventato racconto, branding, dichiarazione d’intenti — ma a Bangkok resta anche rumore, grasso, e sudore.

Mangiare qui è un atto di adattamento e sopravvivenza. Non c’è sequenza, non c’è galateo: le zuppe arrivano prima dei fritti, il dessert può scivolarti sotto il naso mentre mastichi un peperoncino assassino. Ogni boccone è un test — della tua apertura mentale, della tua resistenza, del tuo livello di fiducia nel venditore ambulante che maneggia banconote e carne cruda con la stessa grazia.

Bangkok è una metropoli dove puoi cenare da uno chef stellato scappato da Copenaghen e fare colazione con una zuppa di noodles appollaiato su una sedia di plastica in mezzo ad un marciapiede. Dove puoi ordinare un cappuccino con latte di cocco mentre osservi un monaco col cellulare piegato in preghiera sullo schermo. Dove la street art abita i muri dei vecchi magazzini e le gallerie d’arte si aprono nei centri commerciali, accanto agli stand di bubble tea e alle repliche di peluche appena usciti da un manga giapponese.

Ma quindi? Bangkok non è né bella né brutta. È colpevole. Colpevole di essere più vera del desiderio che la inventa. Di accogliere tutti, anche quelli che arrivano per cercare se stessi e finiscono per perdersi definitivamente. Di non avere un centro, perché il centro si sposta ogni volta che pensi di averlo trovato.

Tra un cavalcavia e un condominio di lusso, ci sono loro: gli spiriti che dominano e a volte scrivono la sceneggiatura della città. A Bangkok non li trovi solo nei cimiteri, ma sotto le scale antincendio dei grattacieli, nei vicoli ciechi, negli angoli bui dove nessuno dovrebbe costruire — e dove qualcuno ha costruito lo stesso. Per questo ogni casa, ogni hotel, ogni centro commerciale ha una casa degli spiriti, spesso più curata del complesso stesso. Un altare in miniatura, con fiori freschi, bibite zuccherate, talvolta un pacchetto di sigarette o una bottiglietta di Krating Daeng – la Red Bull originale, offerti a chi non vuole essere disturbato.

Gli spiriti, qui, non fanno paura. Fanno parte del sistema. Sono ex-inquilini, divinità locali riciclate, antenati permalosi o semplici entità di passaggio che vanno rispettate, come un funzionario ministeriale o un capotreno troppo zelante. A volte si vendicano, ma più spesso ti osservano, come Bangkok fa con tutti: in silenzio, con un mezzo sorriso malizioso o indulgente a seconda dei casi.

In una città che cambia ogni mese, loro restano. E più si costruisce, più ne emergono. I palazzi più lussuosi sono quelli con le storie più strane: porte che sbattono da sole, ascensori che salgono da vuoti, camere d’albergo che nessuno affitta. Ma tutto si sistema con una preghiera, un’offerta, o — in casi estremi — una cerimonia privata con un monaco e una bottiglia di whisky.

Bangkok è una città dove il sacro convive col peccaminoso, dove puoi passare da un go-go bar a un tempio senza cambiare strada, dove un tatuaggio sacro può essere inciso da un monaco o da un tatuatore ubriaco, a seconda del budget. Ma sempre, sotto tutto, ci sono loro: gli spiriti. I veri padroni di casa. Gli unici che non vanno via quando finisce il contratto d’affitto.

E poi c’è il noir. Quello letterario, venduto nelle librerie degli aeroporti. Ma anche quello reale, che si insinua tra i volti allegri e gli sguardi spenti, tra le promesse del progresso e le ombre che si inseguono sotto i cavalcavia. Bangkok è noir perché non fa sconti, non si spiega, non ha bisogno di un assassino per risolvere un enigma. Qui l’enigma sei tu, il farang che pensa di avere tutte le risposte e si accorge di aver sbagliato le domande.

E ci sono gli scrittori, naturalmente. Quelli che arrivano qui in cerca di ispirazione e finiscono a scrivere sempre lo stesso romanzo: detective stranieri mezzi buddisti e mezzi alcolizzati, bariste con il cuore d’oro e un passato torbido, poliziotti corrotti e monaci inquietanti. John Burdett ha fatto scuola con il suo Sonchai Jitpleecheep, ma non è stato il solo. Bangkok, per la narrativa noir occidentale, è diventata una terra promessa di cliché, un Truman Show asiatico dove ogni palazzo puzza di incenso e disperazione, e ogni vicolo nasconde un segreto da due soldi.

Certo, John Burdett è il più noto, ma non è stato il solo a impacchettare Bangkok in carta da noir e venderla come souvenir per lettori affamati di cliché. Prima e dopo di lui sono passati in tanti: Christopher G. Moore, ad esempio, con il suo Vincent Calvino, avvocato-investigatore americano piantato a Bangkok come un mozzicone di sigaretta in un bicchiere di birra calda. Una saga che mescola corruzione, affari opachi, espatriati sbandati, improbabili colonnelli amanti di Shakespeare e prostitute, sempre sullo sfondo di una città descritta come un sogno lucido sul punto di franare.

Poi c’è chi ha imboccato la scorciatoia più facile: Bangkok come bordello narrativo, un luogo dove tutto è concesso e niente è spiegato. Jake Needham, ex-sceneggiatore hollywoodiano con la passione per la diplomazia e il crimine internazionale, ha prodotto una serie di thriller ambientati tra ambasciate, strip club e stanze d’albergo con il minibar tragicamente vuoto. O Dean Barrett, che ha scritto romanzi e racconti in cui la Thailandia è insieme fascino ed enigma, tra agenti doppiogiochisti, fantasmi e fantasie.

E infine c’è Barry Eisler, che pur venendo dalla scuola del techno-thriller americano, ha saputo fiutare la tendenza e infilare Bangkok tra le ambientazioni della serie su Livia Lone — una poliziotta tailandese, sì, ma disegnata col righello del trauma occidentale. Da vittima di terribili abusi subiti da bambina si trasformata in giustiziera vendicativa, Lone sembra uscita da un casting tra Kill Bill e Law & Order SVU. Eisler ci prova a ribaltare i cliché, ma finisce per confermarli: Bangkok resta lo sfondo tragico e sensuale dove tutto accade, dove la violenza è inevitabile e la redenzione improbabile.

Il tratto comune? Tutti uomini, quasi tutti americani, quasi sempre disillusi, e con una certa tendenza a usare Bangkok come proiezione delle proprie nevrosi. Le donne? Presenze ambigue, sensuali, salvifiche o spietate, ma raramente protagoniste. E quando lo sono, come nel caso di Livia Lone, sono comunque costruite per aderire al paradigma della protagonista ferita e che cerca vendetta. La cultura thai? Una scenografia mutevole, utile a creare atmosfera più che a essere davvero capita. Il noir diventa così una lente deformante: non per capire la città, ma per giustificare il fatto di esserne inesorabilmente attratti. E in fondo, chi scrive queste storie sembra dire: se Bangkok è un inferno, almeno è un inferno dove si mangia bene.

Una città perennemente immersa in una notte sudaticcia, dove tutto è eccesso, droga, spiritualismo esotico e occasionali epifanie morali sotto la pioggia. Cinema e TV ci hanno messo del loro, con thriller asiatici senza tempo, neon che tremolano, revolver puntati e silenzi densi come la zuppa di noodle all’alba. Ma è la narrativa a colpire più a fondo: quei libri continuano a vendere, a essere tradotti, letti in spiaggia da chi cerca un brivido facile e un’illusione rassicurante. Quella, cioè, di una città dannata dove tutto è permesso — purché resti una cartolina.

Il risultato? Un’immagine appiccicosa, difficile da scrostare. Una Bangkok noir confezionata per l’esportazione, dove il vizio è folkloristico, il peccato è romanticizzato e la complessità sociale viene ridotta a scenografia per il dramma personale del protagonista bianco. Il noir, qui, diventa turismo emotivo, una forma raffinata di escapismo per chi ha bisogno che l’altro sia sempre più perduto di lui. E la città, paziente e ambigua, sta al gioco.

E a proposito di futuri distopici, una volta si diceva che fosse Tokyo la città che aveva ispirato Blade Runner. E ci sta: neon, pioggia, affollamento, scritte incomprensibili e un vago senso di straniamento e claustrofobia. Ma oggi, diciamocelo, il testimone è passato a Bangkok: è lei la vera Los Angeles del futuro. Solo che il futuro è arrivato e non ha portato né le macchine volanti né i replicanti: ha portato grattacieli verticali con aria condizionata a palla e baracche ai loro piedi, centri commerciali galattici e file per il riso a 30 baht. Il tutto mescolato in una zuppa di benzina e incenso, dove i monaci fanno selfie e i robot servono ramen nei mall.

C’è qualcosa di profondamente cinematografico, ma senza trucco, nella Bangkok di oggi. Le insegne lampeggiano, le videocamere ti guardano ovunque, e sotto ai cavalcavia si muovono ombre che sembrano comparse in cerca di copione. La città è più Blade Runner dell’originale, ma senza bisogno di effetti speciali. Qui la distopia non è una scelta estetica o un’invenzione letteraria, è una modalità operativa. Tutto funziona e non funziona nello stesso tempo, come se ogni cosa fosse sempre sul punto di crollare — ma non crolla mai. Resta lì, in bilico, viva.

Così, mentre fuori i turisti inseguono tuk tuk truccati come astronavi e i palazzi crescono più in fretta delle piante, Bangkok continua a fare quello che le riesce meglio: sedurre e confondere. Si reinventa, si trucca, si vende e si nega nello stesso istante. È una truffatrice affettuosa, una femme fatale che a volte ti lascia il portafoglio ma sicuramente si prende l’anima. Ogni volta che pensi di averla capita, cambia quartiere, cambia aspetto, cambia lingua.

Qui non si cerca la verità, si contratta. Con il tassista, con lo chef, con se stessi. E va bene così. Perché forse il vero segreto di Bangkok è che non ha un segreto: è tutta lì, in mostra, più sincera di quanto vorremmo ammettere. Non è esotica, è estrema. Non è mistica, è meccanica. Non è un viaggio, è un ritorno. A che cosa, non è chiaro. Forse al punto esatto in cui avevamo smesso di farci domande.

Alla fine, Bangkok non si visita. Si vive. E se sei abbastanza fortunato, magari ti ci perdi. Ma sappi che lei ti troverà per prima.

Bangkok immaginata

Tra romanzi, film e piatti fumanti

Per alcuni è un set perfetto. Per altri, un miraggio esotico. Per molti scrittori e registi occidentali, Bangkok è diventata lo sfondo ideale per drammi morali, notti da dimenticare e spiritualismi fai-da-te. Ma c’è anche chi, da dentro, ha provato a raccontarla senza filtri, senza cliché e senza compassione.
E poi c’è il cibo — l’unico modo per raccontare Bangkok senza mentire.
Ecco una selezione ragionata di romanzi, film e piatti che, a modo loro, immaginano la città.

Romanzi

  • John Burdett – Bangkok 8 e tutta la serie diSonchai Jitpleecheep
    Detective buddista e crimine karmico: Bangkok tra spiritualismo e corruzione.
  • Christopher G. Moore – Spirit House
    Il noir metropolitano dell’expat disilluso, tra avvocati e anime perse.
  • Barry Eisler – Livia Lone
    Poliziotta tailandese segnata dal trauma: un revenge thriller in salsa tropicale.
  • Jake Needham – The Big Mango
    Intrighi americani nel cuore della Bangkok diplomatica e opaca.
  • Dean Barrett – Kingdom of Make-Believe
    Spie, fantasmi e bariste enigmatiche: la città come teatro barocco.
  • Chart Korbjitti – The Judgement
    Il volto amaro della moralità sociale in un quartiere popolare.
  • Prabda Yoon – The Sad Part Was
    Racconti surreali e lirici: Bangkok come luogo mentale e affettivo.
  • S.P. Somtow – Moon Dance / Vampire Junction
    Bangkok oscura e sovrannaturale: horror, gotico e satira in un mix inconfondibile.

Film

  • Only God Forgives (Nicolas Winding Refn, 2013)
    Bangkok trasformata in un incubo estetico fatto di silenzi, luci rosse e sangue karmico.
  • Bangkok Dangerous (Pang Bros, 1999 / remake USA 2008)
    Killer, alienazione e disorientamento in una città che inghiotte chiunque.
  • The Hangover Part II (Todd Phillips, 2011)
    La versione comica — e grottesca — del cliché: tutto sbagliato, quindi azzeccato.
  • The Beach (Danny Boyle, 2000)
    L’inizio della discesa all’inferno per backpacker illusi: si parte da Khao San.
  • Last Life in the Universe (Pen-Ek Ratanaruang, 2003)
    Sospensione poetica tra caos urbano e interiorità rarefatta.
  • Cemetery of Splendour (Apichatpong Weerasethakul, 2015)
    Sogno, tempo e spiritualità in una Thailandia ipnotica.
  • By the Time It Gets Dark (Anocha Suwichakornpong, 2016)
    Cinema della memoria e della discontinuità, con Bangkok sullo sfondo, come un’eco.

Piatti iconici

  • Pad Thai
    Il grande classico: noodles di riso, uova, gamberi, tofu, tamarindo, arachidi.
  • Tom Yum Goong
    Zuppa piccante e acidula con gamberi, lime e lemongrass: fuoco liquido.
  • Som Tam
    Papaya verde pestata, lime, aglio, pesce fermentato: fresca e devastante.
  • Green Curry (Gaeng Keow Wan)
    Curry verde al cocco, con pollo, melanzane e basilico thai.
  • Massaman Curry
    Dolce, speziato e morbido: un curry denso di influenze persiane.
  • Red Curry (Gaeng Daeng)
    Più deciso e profondo, con latte di cocco, bambù e carne.
  • Pad See Ew
    Noodles larghi saltati con soia scura, verdure e uova. Rustico e confortante.
  • Pad Krapow (Gai o Moo)
    Carne saltata con basilico sacro, peperoncino e riso bianco: il piatto dei lavoratori.
  • Khao Pad
    Riso fritto con uova e verdure: semplice, onnipresente, adattabile.
  • Mango Sticky Rice (Khao Niew Mamuang)
    Riso glutinoso e mango fresco con latte di cocco: il dessert che conquista tutti.

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